Il tempo negli ospedali diventa sostanza.
Lo puoi sentire, spesso e denso, muoversi tra le stanze.
È il qui e ora vorace e degli appena nati per i quali un seno gonfio racchiude il senso intero dell’esistenza.
È l’interminabile attesa del mattino di quelli che aspettano una scadenza (è oggi?) o un antidolorifico, finalmente.
È il termometro, la pressione, la colazione, il giro visite in cui riassumi da alunno diligente tutto quel che senti, quel che hai fatto alla presenza di questo tempo: ho mangiato, sì, l’urina è limpida, ho molto mal di testa.
Tutto gira intorno al corpo e alla carne, come mai altrove: eppure è un corpo labile, non ti permette di dormire del tutto, di mangiare del tutto, di essere presente del tutto.

Sono passate le cinque da poco, il tempo della tua vicina di letto è stato più crudele del tuo e ti sveglia di lamenti, di pianto.
Offri due parole, inutili; un po’ d’acqua, inutile.
Scendi per fare combaciare il più possibile il tuo tempo di qui con quello che ti ricorda quello che sei fuori, di qui.
Cinquanta centesimi, il caffè, la sigaretta nel dehor: guardare il cielo, chissà se oggi è bello.

Ti prendi il tempo di rubare al tempo un po’ di forma dalla sua sostanza, ti stiracchi un po’, come non facevi da giorni e la tua vicina dorme, adesso, e il cielo si è schiarito.

Sì, oggi farà decisamente bello.