Il passato è una terra straniera. Fanno le cose in modo diverso, laggiù.

L. P. Hartley, L’età incerta (o The go-between)

Per quanto vivi e attenti possiamo sentirci nel nostro presente, ciò che fa di noi quello che siamo (o che crediamo di essere) è la sciarada infinita e puntiforme dei nostri ricordi. Quell’aggregato di immagini, parole, impressioni di azioni che lampeggiano – talvolta a tradimento – come diapositive proiettate in quella sorta di wunderkammer di piaceri e malestri che è la nostra mente abitata dal passato.

Ci ricordiamo, ci sembra di ricordare, e mentre organizziamo il tutto in un racconto per gli altri che dica chi siamo, in qualche modo, la sicurezza un po’ cede. “Ero proprio io? Ho detto esattamente quelle parole? Ero dove ho detto di essere oppure altrove?”. E in questo slabbrarsi nella tenuta del nostro racconto si annidano i bui e i vuoti, quei bui e quei vuoti che nei momenti peggiori proviamo a ricostruire insieme a un qualche professionista della disperazione come Dustin Tillman, protagonista di questo abissale viaggio a ritroso nel tempo.

Superstite appena adolescente, al massacro dei genitori e degli zii, Dustin è insieme a Kate, una delle sue cugine, il principale accusatore di Rusty, fratello maggiore adottivo: per quello che ricorda è stato lui a uccidere. Rusty l’adolescente inquieto, prodotto del sistema di affidamenti sbagliati dopo la morte della madre in prigione. Rusty il “satanista”, l’ascoltatore di heavy metal, Rusty che si approfitta dell’ingenuità di Dustin e del desiderio di trasgressione delle cugine. Giudicato colpevole all’epoca dei fatti, viene rilasciato trent’anni dopo grazie a una revisione della sentenza dovuta a un esame del DNA.

Rusty, non era nemmeno sulla scena del delitto. E allora cos’è del ricordo di Dustin? Qual è, davvero, la storia del suo passato? E cosa ne sarà del suo racconto, quello che al momento fa di lui la persona che è, lo psicologo, il marito amorevole e il padre presente di due figli adolescenti?

Mentre sulla base di questo interrogativo che viene dal passato il presente sembra sgretolarsi pezzo a pezzo, altri interrogativi si accumulano sulla scorta di alcuni omicidi che sembrano opera di un assassino seriale, in un crescendo di domande senza risposte, di distacco sempre più tangibile dalla realtà e di personaggi inquietanti, foschi, terribilmente ambigui.

È con grande difficoltà umana che scrivo di questo romanzo e, a dirla tutta, se avessi potuto rititolarlo mentre lo leggevo lo avrei chiamato La volontà del farmi male perché tocca, chirurgicamente, tutti quei nervi che porto scoperti ovvero il confronto col passato, lo scollamento dal presente e il timore del futuro.

E l’adolescenza, quel passaggio di tempo che fa riempire manuali e che per me è semplicemente ineffabile alla quale Chaon riesce a dare una voce fortissima, invece.

Un romanzo terribile e con terribile intendo sublime, quello kantiano, letteralmente. Il sublime che ci terrorizza per ciò che dice e ci attrae per come lo dice. Che ci getta sul fondo dell’abisso e ci chiede di essere chiuso, in certi momenti.

Anche se chiudere, prima della fine è impossibile.

Ciascuno di noi porta con sé un’ombra, e meno quest’ombra è radicata nella vita cosciente dell’individuo, più diviene densa e oscura.

C. G. Jung, Psicologia e religione

Dan Chaon, La volontà del male, NNE, traduzione di Silvia Castoldi