“Non perdonare. Il perdono accusa prima di perdonare, accusando, affermando la colpa la rende irremissibile, porta il colpo sino alla colpevolezza: così, tutto diviene irreparabile, poiché il dono e il perdono cessano di essere possibili. Perdona solo l’innocenza. Perdonami di perdonarti”.
Da Maurice Blanchot, La scrittura del disastro, Il Saggiatore, 2021, traduzione di Federica Sossi.
“Pèrdono. Tutti.Per-dono. Per-donare. È necessario avere la posizione più alta rispetto a chi ha moralmente mancato. Più alta, compiuta e piena in senso etico, così da riuscire a colmare il vuoto di chi ha mancato restituendogli la stessa posizione morale. Donare per restituire, ristabilire un equilibrio etico. Perché? E chi ha la possibilità di questo dono-per?”
Anna Livia Plurabelle, in un anno imprecisato, tempo fa.
Apro a caso questo testo postumo di Blanchot. Lo faccio compulsivamente, al lavoro. Fotografo qualche frammento. Non è un saggio, dentro non ci si trovano teorie ma constatazioni. Sulla letteratura e sulla vita. Sulla letteratura che è la vita. Frammenti. Luminosi, accecanti così tanto che fatico a staccare la mano, lo sguardo. La vita è scheggia e frammento talvolta incomponibile. Un quadro (che ci pareva chiaro) che si sfoca e si disfa al sopraggiungere del disastro. Scelgo a caso questo brano sul perdono perché è faccenda che mi occupa il pensiero da tempo, da quando ho avuto consapevolezza dell’ingiustizia del mondo e dell’uomo. E della sua irreparabilità. E forse è per questo che non perdono. Dimentico, spesso. Ma quando non dimentico questa irreparabilità mi apre un taglio, un varco per l’amarezza che non so curare. Scheggiata e frammentata di nuovo e allora mi dedico agli enigmi, alla risoluzione di codici cifrati, allo studio di lingue distanti: alla comprensione dei suoi alfabeti. Per reimparare l’interezza dell’universo. E la mia.

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