Difficile commentare questo romanzo.
C’è l’infanzia, nella sua versione più lucida, perversa quasi.
“Un bambino è un adulto temporaneamente costretto a condizioni di vita che escludono qualsiasi possibilità di essere felice. Quando si è piccoli ci si trova a dover lottare con delle menomazioni simili a quelle inflitte da qualche terribile incidente o da una malattia; però mentre le persone menomate o paralizzate vengono compatite…nessuno prova dispiacere per i bambini, nonostante siano sempre a piangere e gridare la loro frustrazione e il loro orgoglio ferito.”
Eppure è proprio lo sguardo di questi bambini, questi figli della famiglia Aubrey e di Rose in particolare che ci restituisce un’immagine mobile, plurisfaccettata e totale di un mondo adulto disperato e disperante.
C’è la musica, che riflette e amplifica ad ogni pagina i sentimenti e la fatica del vivere quotidiano e che fa da guida alla comprensione psicologica dei personaggi:
” Quando la mamma suonava bene…il suo modo di suonare era il Vangelo e l’evangelista che lo predicava, e esigeva una chiesa che venerasse un dio che solo in quell’atto si rivelava pienamente. Quando invece suonava il cugino Jock, creava intorno a lui un mondo in cui tutto era conosciuto, e nel quale l’arte non era una scoperta ma un ornamento. Tutto allora era triviale, e sia l’arte sia la vita erano prive di significato. La sua esecuzione era perfetta, e tuttavia era parte di quello stesso processo di distruzione che aveva sfigurato la stanza nella quale sedevamo…”.
E poi.
Cultura e conoscenza sono strettamente legati alla precarietà, in questo romanzo: un binomio eccentrico per l’epoca attualissimo oggi, invece.
Tantissime le chiavi di lettura, tanti i riferimenti.
Tanti i generi e gli stili.
La Wunderkammer di un’epoca intera.

Rebecca West, La famiglia Aubrey, Fazi editore, traduzione di Francesca Frigerio