A volte il refrigerio non è solo un bisogno fisico ma una vera e propria necessità della mente. Almeno della mia che in questi giorni sta raggiungendo sempre più spesso e sempre più in fretta il punto di fusione e mi mancano quelle estati in montagna con la sdraio orientata sulla valle, in mezzo all’orto, durante le quali potevo comodamente lasciare il cervello sul comodino per qualche giorno e riprenderlo solo a partenza imminente.

Le estati in cui con la Nonna – che è la bisnonna della Bestia – scambiavamo riposanti conversazioni sulla scelta del contorno all’immancabile fettina (lunedì pollo, giovedì vitella, il manzo no) o sulla cena prossima. ‘Fu i curnitt col buter?’ ‘E stasera? Ris’ e erburin?’ Oppure se spetegulava un cicinin sulla vesina.

In quelle estati riuscivo a leggere senza soluzione di continuità, felicemente. Oppure ricamavo – e anche questo mi manca e non mi importa se mi rende una figurina oleografica d’antan. Ricamare mi manca, e mi manca lo scorrere semplice. Tutto questo per dire che in questa mia (ennesima) faticosa estate milanese ho trovato il modo di anticipare il punto di fusione. Dormo con un fazzoletto di lino bagnato dietro alle ginocchia e, soprattutto, leggo Maupin in ogni frammento di tempo che ho a disposizione.  Maupin con i suoi dialoghi fulminei, feroci, brillanti. Maupin e l’amore e il disamore e Anna Madrigal e Mouse. E in quelle mezz’ore rubate al tempo ‘pieno’ e al caldo riesco a tornare alla sdraio con vista sulla gola del Varrone.  E intanto il cervello riposa sul comodino. 

Armistead Maupin, I racconti di San Francisco (e seguenti), Rizzoli, traduzione di Valentina Guani e Elisabetta Humouda

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