Per qualcuno la poesia è noia. Per altri sono solo frasi a capo e finali in rima.
Per qualcun altro è invece l’essenza stessa del pensiero e della parola. Tra questi, i poeti, c’è chi scrive moltissimo, e ne ha bisogno per far scendere la pressione della vita che preme; c’è chi invece si dosa in maniera quasi omeopatica.

Questo è il caso di Elizabeth Bishop.

Destinata a un infanzia triste e povera a causa della morte del padre quando è ancora neonata e a quella della madre da bambina, viene affidata invece alla famiglia materna prima e a quella paterna, poi, riuscendo ad avere una giovinezza serena e ad approdare al Vassar College.
Timidissima e schiva, ha in mente ancora il silenzio dei boschi della Nova Scotia e del Massachusetts, quando Mary McCarthy, che sarà sua amica per tutta la vita, la convince a trasferirsi a New York.
Qui inizierà la carriera autoriale e accademica di Elizabeth e da qui partiranno i suoi lunghi viaggi, alla scoperta del mondo e alla ricerca di significato: da questi viaggi, scrive diari e reportage pieni di luce e (non a caso) di poesia.
In Brasile conosce Lota, che progetta sogni e case e che sarà il grande amore di Elizabeth e sua compagna fino a che la depressione e l’alcolismo se la porteranno via.
Tornata negli Stati Uniti, si dedicherà all’insegnamento e certamente alla scrittura
(bellissimi anche i suoi racconti e gli epistolari, in particolare quello con Robert Lowell).
Quando sembra tardi conosce Alice, che sarà la sua compagna fino alla fine.
Come gli amori, di cui parla molto poco, conservando tutto per sé, le poesie di Elizabeth sono rare e preziose (ne scrive un centinaio in circa trentacinque anni).
Non c’è nulla di sprecato, non una virgola fuori posto, non una parola che non cada cristallina ed esatta.

Io la amo molto. E non avevamo ancora invitato la poesia al tè.

Un’arte

L’arte di perdere non è difficile da padroneggiare,
ci sono cose il cui solo scopo pare esser quello di esser perse
che perderle non è un disastro.

Perdi qualcosa ogni giorno. Accetta
la confusione per le chiavi perdute,
un’ora buttata via.
L’arte di perdere non è difficile da padroneggiare.

E allora spingiti più lontano, perdi ancor più velocemente luoghi, e nomi, e dov’era quel posto dove volevi tanto andare?
Nessuna di queste perdite sarà un disastro.

Ho perso l’orologio di mia madre. E guarda! L’ultima, o penultima, delle mie tre amate case è andata.
L’arte di perdere non è difficile da padroneggiare.

Ho perso due città, belle. E ancor più in grande ho perso alcuni regni che mi appartenevano, due fiumi, un continente.
Mi mancano, ma non è stato un disastro.

Anche perdere te (la voce scherzosa, un gesto che amo), non avrei dovuto mentire.
È evidente che l’arte di perdere non è poi così difficile da padroneggiare
sebbene possa sembrare (scrivilo!) un disastro

One Art

The art of losing isn’t hard to master;
so many things seem filled with the intent
to be lost that their loss is no disaster.

Lose something every day. Accept the fluster
of lost door keys, the hour badly spent.
The art of losing isn’t hard to master.

Then practice losing farther, losing faster:
places, and names, and where it was you meant
to travel. None of these will bring disaster.

I lost my mother’s watch. And look! my last, or
next-to-last, of three loved houses went.
The art of losing isn’t hard to master.

I lost two cities, lovely ones. And, vaster,
some realms I owned, two rivers, a continent.
I miss them, but it wasn’t a disaster.

—Even losing you (the joking voice, a gesture
I love) I shan’t have lied. It’s evident
the art of losing’s not too hard to master
though it may look like (Write it!) like disaster