Résumé. Razors pain you,

Rivers are damp,

Acids stain you,

And drugs cause cramp.

Guns aren’t lawful,

Nooses give,

Gas smells awful.

You might as well live.

Résumé

I rasoi fanno male,

I fiumi sono umidi,

Gli acidi macchiano

E le droghe danno i crampi.

Le pistole sono illegali,

I cappi cedono

I gas puzzano

Tanto vale vivere

È altamente probabile che se Dorothy Parker avesse ricevuto un invito scritto per un tè pomeridiano lo avrebbe incenerito con la punta della sigaretta e con un ghigno sprezzante.

Perciò, ma, uhm, giusto per avvicinarla, non per altro, oggi al tè aggiungerò una buona dose di alcolici – quel poco che è rimasto in dispensa e speriamo non sia l’Alchermes avanzato dalla zuppa inglese fatta in preda a un raptus pasticcero di qualche anno fa.

Dorothy Rothschild non nasce esattamente con uno ‘silver spoon in her mouth’*: rimane orfana prestissimo di madre e il padre si risposa con una signora che pare uscire dal manuale delle matrigne crudeli.

Ma a breve tutti e due muoiono e Dorothy si guadagna da vivere come può, suonando il piano nelle scuole di danza e scrivendo articoli per alcune riviste. Una di queste, Vanity fair, la assume come critico letterario, mestiere che farà per qualche tempo, tra una sbronza, un matrimonio partito male e finito peggio (matrimonio che le ‘regala’ il cognome Parker e che sarà l’unico effettivo lascito sulla sua esistenza) e una giornata spesa all’hotel Algonquin, sulla 44esima strada, dove insieme ad altri gaudenti, goliardi e decadenti, passava molto del suo tempo.

Dorothy Parker non è inquadrabile in alcun modo, resiste a qualunque tipo di classificazione. Nonostante una grande, grandissima anzi, capacità espressiva, scrive relativamente poco, molta poesia, qualche racconto, molti articoli: si stanca immediatamente di tempi e scadenze e non tollera costrizioni. È velenosa, corrosiva, persino crudele: ciononostante, ovunque si muova, la sua scintilla intellettuale accende fuochi culturali, da Hollywood – dove scrive sceneggiature per il cinema, una su tutte quella di È nata una stella – a New York; qui, dopo essere stata licenziata da Vanity Fair, diventa personaggio chiave del neonato New Yorker.

Una delle chiavi per riuscire a leggerla credo sia la disperazione.

Era stata una bambina disperata, vergognosa di essere figlia di un ebreo in un’America che si scopre profondamente antisemita (e non è un caso che scelga di tenere il cognome Parker), soprattutto nelle sue fasce più povere – e qui mi scatta immediatamente l’immagine della New York labirinto ostile, percorso con timore e trepidazione da un bimbo arrivato da uno shtetl galiziano, David Schearl nel capolavoro di Henry Roth, Chiamalo sonno.

Disperata sarà anche la sua vergogna per la vergogna, che il tempo trasformerà in attivismo politico verso i più deboli, i più poveri.

Disperato è il suo rifiuto della nuova moglie del padre e i suoi ripetuti tentativi di essere amata, a dispetto di tutto, da chiunque, purché fosse in qualche modo amore.

Da questa assenza di speranza e di spiragli vengono i suoi ripetuti tentativi di suicidio e l’alcolismo. E da questo però, deriva anche la sua immensa capacità di guardare tutto e tutti, per prima sé stessa, con un distacco sublime e l’ironia dei giganti.

*nascere col cucchiaio d’argento in bocca = nascere con la camicia