
Si racconta che Hernán Cortés, giunto con i suoi uomini sulle spiagge di Veracruz, dette ordine di bruciare le navi per impedire fughe di ritorno verso Cuba e obbligarli a restare indeterminatamente in quel Messico che voleva come suo ad ogni costo.
A navi incenerite, non restava altro da fare a quegli uomini che restare e affrontare il Mondo Nuovo e dimenticare tutto ciò che fino a quel momento erano stati.
Due settimane fa, da una strada laterale della Stazione Centrale, ho chiamato un’ambulanza per un ragazzo steso a terra, incosciente.
‘Uno che è arrivato con le barche’, come mi ha segnalato un uomo, credo africano ma che conosceva il modo tutto italiano per indicare gli svitati, quelli che hanno perso il cervello.
A parte me, non si era fermato nessuno.
Ci sono tornata il giorno dopo, alla stradina laterale e lui era ancora là, e ancora il giorno dopo.
Si chiama Mousha e viene dal Gambia. Non parla italiano e piange, piange spesso di pianto alcolico.
Mousha ha diciannove anni, è passato per la Libia e dalla Libia, attraverso il mare si è portato dietro il buio di una fragilità gravissima.
‘Dove stava prima prendeva il Rivotril’ mi dice una delle donne del piazzale. Potrebbe essere rumena, le mancano parecchi denti eppure, a confronto con Mousha, sembra una roccia, ferma, tranquilla e a suo modo, i capelli raccolti in un cappellino a righe navy, anche elegante.
Mousha al rifugio non vuole andare. Il giorno prima se n’è andato anche dal pronto soccorso, sul petto ha ancora gli adesivi degli elettrodi per l’elettrocardiogramma. Non ha documenti, in tasca solo i fazzoletti di carta che gli ho offerto.
Mousha ha segni di cicatrici ovunque. Due da taglio, più recenti, sul braccio sinistro e sulla pancia.
Mentre parliamo, dal piazzale arrivano personaggi minacciosi, gli abbaiano qualcosa.
‘What are they saying Mousha?’
‘They said stop talking with the lady. They’re bad people you know? But Mousha, me I’m a fine man, trust me. I just want to see me ma’.
Nel villaggio in Gambia, del quale non sono in grado di ricordare il nome mezzo secondo dopo averlo sentito, a Mousha resta una nonna.
‘I said, maybe I go Europe, maybe things are better but now, I can’t go back. No, Mousha can’t go back’.
Mi chiede di lasciargli qualche spicciolo, come sempre. Senza antidepressivi e ansiolitici ha bisogno di bere. Per poi collassare, dimentico, sul marciapiede laterale.
Mousha ci morirà su questo piazzale a meno di un mezzo miracolo. Un ragazzo senza nome, ingoiato dalla storia, dalla povertà, dall’indifferenza, al quale tutte le navi sono state bruciate. Un Odisseo che ha perso ogni cosa. Un fagotto inumano su una delle strade laterali della Stazione, tra trolley e sponsor dei bus per l’aeroporto.
‘I’ll be here again on Monday, take care darling, eat something. Drink some water, I’ll come to look for you’.
‘You promise?’
Te lo prometto, sì.
10 Marzo 2019 il 12:33
Grande, come mi piace leggere le tue cose. Sono profonde, e spesso assomigliano a frammenti della mia anima. Grazie
28 Marzo 2019 il 18:51
Grazie Ray❤️