È con una certa ritrosia che scelgo di scrivere di Ann Tyler perché a differenza della maggioranza degli scrittori detesta parlare di sé e sono rarissime le occasioni in cui ha concesso interviste – e questo mi ricorda altri due scrittori che hanno fatto la stessa scelta di anonimato e silenzio e che stanno nel mio personale olimpo minimo delle lettere, ovvero Henry Roth e J.D. Salinger. Una persona lieve, quieta, che vive la sua vita da sempre a Baltimora, città che fa da fondale a quasi tutti i suoi romanzi.

Una città-mondo, popolata di gente qualunque, normale, di quella normalità che ci appartiene tutti ma che sappiamo nascondere una complessità infinita.

Per scegliere di chi raccontare e come raccontarlo, tiene una piccola rubrica a rullo che nel tempo ha riempito di idee, di nomi presi dall’elenco del telefono: la sfoglia e la fa ‘parlare’. E quando parla, attraverso la scrittura, lo fa lievemente, senza drammi o tragedie, con un’ironia sottilissima. Dolce, se si può dire della dolcezza con ironia, una sorta di levità aurea, preziosa.

Forse è anche per questo che, pur avendo vinto un Pulitzer (per Lezioni di respiro) e nonostante dai suoi romanzi siano stati tratti dei film (come dimenticarsi William Hurt in Turista per caso?), nonostante sia amata da Eudora Welty e John Updike, i suoi romanzi vengono spesso guardati col nasino snob da alcuni critici e lettori italiani. Ed è invece proprio quello che io amo di Anne Tyler: la sua leggerezza apparente che riesce a penetrare rapporti distrutti, famiglie divelte, umani atterrati dalla vita senza mai mostrarcene il ‘sangue’, nonostante affondi la lama con decisione. Quella stessa leggerezza (sorniona) dalla quale ti aspetti finali come li vorresti tu e invece ti irride e sgambetta e però, nonostante tutto, ti fa sentire meno solo.

Ann T