Aveva già da tempo chiuso la partita del dare e avere con suo padre.
Azzerato le rimostranze, i sospesi, i silenzi.
Deglutito tutti i boli di incomprensione, respinto e segnato con un frego di penna i sì, i no, l’incapacità di muovere una mano a far carezze.
Prosciogliere da carichi di accuse inespresse ventennali, almeno.
Pacificare, far spallucce e accettare i ‘ ma sì, è andata così’, questo era conoscersi finalmente adulti.
Ma una cosa no, non la perdonava, perché l’onda lunga dei suoi effetti malsani la costringeva a stalli imbarazzanti e a rimuginii notturni.
Le aveva insegnato, anzi no, inciso profondamente la paura del litigio.
Se litighi resti solo.
Se avanzi richieste resti solo.
Se pretendi il tuo resti solo.
Se ti opponi resti solo.
Non ti vorrà bene nessuno.
E così andava avanti, nutrendo un raffinatissimo quanto inutile esprit de l’escalier, masticando, ingoiando, senza mai digerire; gonfia di rimostranze (antiche, anche) si guardava allo specchio disdegnandosi, finché, a cadenze all’incirca semestrali, una banalità qualunque non la faceva esplodere. Cretinamente e fuori tempo.
E anche adesso che suo padre si era dimezzato per l’età e la malattia non glielo perdonava questo batterio di ignavia che le aveva trasmesso.
Perché se avesse perdonato, credeva, non sarebbe mai guarita.
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