Afarin Sajedi

Si stava ingrandendo, questo era un fatto.
I piedi, già piuttosto grandi, non stavano più a posto nelle scarpe da un po’.
La gravidanza, diceva qualcuno. Il tuo lavoro, altri.
Poi però aveva notato il naso, nelle foto. Sarà stata la luce, contro. O l’ombra di un passante, sì, forse. Ma a casa se l’era guardato, sospetta. Era più grande, inutile far finta che le foto, le luci, i passanti.
Poi, le orecchie, sempre più discoste, sempre più protese, tirate, trasparente il padiglione e i lobi allungati.
E la testa intera. Tutta.
I cappelli le sfuggivano, il collo si piegava, appesantito.
Lo specchio non la inquadrava più, per vedersi la bocca era costretta a stare sulle punte dei piedi fuori misura, sbilanciata e goffa.
Il fegato megalico, l’utero espanso e gonfio: un inutile pallone.

Il dolore, il suo pesce pilota, eterno simbionte quando dormiva, mangiava, lavorava, pisciava, rideva, scopava, impostava la lavatrice sui delicati, perdeva i tram, stringeva una mano; il dolore pompava, tirava, riempiva tutto.

E stava lì, nel centro della fronte, a ingigantire il naso, le orecchie, i piedi, la testa e le questioni quotidiane.
Un pianto le sembrava una sirena, un sussurro delle urla di minaccia.
Ed era esigente, non ammetteva abbracci né compagnie. Le parole meno che mai.

E non c’era cura, non c’era interruzione.

Ogni tanto immaginava di essere tagliata a metà e eviscerata, ripulita, lavata a fondo e ricomposta; una sorta di esperimento vivente e riuscito, un cyborg sano e con un cuore.

‘Adesso dormi un po’, per favore’, e glielo disse strofinandole il pollice sulla fronte.
‘Domani sarà meglio, sono sicuro.
E ristamperemo le foto. E prenderemo un nuovo cappello.
E faremo strage di pesci, promesso’