In Epepe, un linguista parte per un convegno internazionale. Convinto di essere atterrato ad Helsinki si ritrova, invece, in una città sconosciuta dove gli abitanti parlano un idioma per lui indecifrabile, a dispetto delle sue competenze e dei suoi sforzi. Quando gli verranno sottratti anche i documenti si ritroverà definitivamente senza più parole, solo, del tutto perso in un mondo che di quello che ha lasciato sembra avere solo i tratti più inquietanti e perversi.
Gli stessi tratti che sembrano accogliere il protagonista de L’approdo, romanzo dal quale le parole vengono del tutto escluse e il racconto affidato a immagini fotografiche e eloquenti. Partendo da presupposti simili (lo straniamento, l’incomprensione, l’alterità) i due racconti giungono a conclusioni differenti.
Due romanzi altamente metaforici e con chiavi di lettura multiple (quella dell’incomunicabilità e dell’inutilità delle parole, della diversità, della migrazione).
Inutile dire, bellissimi.
Ferenc Karinthy, Epepe, Adelphi, 2017 (il romanzo è però del 1970), traduzione di Laura Sgarioto
Shaun Tan, L’Approdo, Elliott, 2006, Tunuè, 2016

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