28 settembre 1900

Mio Mordechai,
non ho tue notizie da settimane.
Vado ogni giorno a camminare sulla spiaggia di Otrada con Marja, ci fermiamo al chiosco dei molluschi per il pranzo e mi ricordo di noi, in questi stessi giorni, l’aspro del vino bianco della Georgia, dei limoni spremuti e brillanti sui gusci pietrosi delle ostriche e del sole finalmente mite, non più ostile, come oggi.
Quanto eravamo liberi, Mordechai, e istupiditi dalla leggerezza del vento e del mare e di noi.
Allora, ritagliavamo delle ore del giorno per trasformarle in notti, per avere, in queste notti mascherate, il dono del sonno condiviso.
Quello che nelle notti comuni, le notti di tutti, non sarebbe mai potuto essere nostro.
Non ci sono fotografie che ci raccontino: non ne abbiamo fatte e forse non ne faremo mai – e talvolta questa impossibilità di guardarci dall’esterno e di poter mettere un dito sul ‘noi’ e mostrarlo al mondo mi intristisce e mi fa chiedere a un dio qualunque di liberarmi di questo incantesimo e dell’attesa.
Ma è una tristezza quieta, passeggera.
Perché quel noi sta nel ricordo del mio indice che segue il contorno dei tuoi occhi, sta nella mia mano appoggiata sulla curva della tua schiena. È nel mio naso, sulla pelle e sotto di essa.

È un noi che da qualche parte è stato scritto con un inchiostro che riempie pagine e non va più via.
Tua,
Anna